La perdita dell’olfatto dei pesci
Ad un aumento nella concentrazione superficiale di CO2 degli oceani è legato l’incremento dell’acidità delle acque e la riduzione della capacità degli oceani di assorbire ulteriore CO2 dall’atmosfera, mettendo in difficoltà barriere coralline, molluschi e plancton, perché conchiglie ed esoscheletri tendono a sciogliersi. La risposta degli organismi marini a questa acidificazione non è ben nota e potrebbe causare ulteriori gravi cambiamenti nel ciclo del carbonio.
Conseguenza di questo e danno ulteriore, è che anche i pesci stanno perdendo il senso dell’olfatto per l’appunto a causa dell’aumento di anidride carbonica presente nei mari e negli oceani della Terra.
Secondo una ricerca della University of Exeter l’impatto potrebbe essere nocivo per l’intera fauna marina. I pesci infatti utilizzano il loro senso dell’olfatto per trovare il loro habitat, il cibo, per evitare predatori e riconoscersi a vicenda. La stessa sopravvivenza dei nostri amici potrebbe venire compromessa dalla loro abilità di sentire gli odori.
L’assunto è facile: CO2 in aumento = mari più acidi
L’anidride carbonica presente nell’atmosfera, assorbita dall’acqua di mare, forma acido carbonico. Secondo un’infausta previsione, il livello di acidità degli oceani, cresciuto dai tempi della rivoluzione industriale di un 43%, raggiungerà addirittura il 150% in più, rispetto ai livelli attuali, entro la fine del secolo. E’ chiaro che un evento di tale portata potrebbe sconvolgere completamente la vita marina che conosciamo oggi, partendo proprio da uno degli elementi più sottovalutati, l’olfatto dei pesci, che in presenza di alta CO2 risultano come disorientati, non sapendo più comportarsi normalmente, né evitare i predatori.
Lo studio, primo nel suo genere (2018), è stato confermato dai ricercatori della University of Exeter nel Regno Unito, analizzando il comportamento di alcuni branzini o spigole (Dicentrarchus labrax) in diverse condizioni di acidità. All’ innalzamento di CO2 nell’acqua, al livello previsto per la fine del secolo, il comportamento delle spigole mutava radicalmente: i pesci nuotavano meno, erano meno capaci di fuggire dai predatori e spesso si «bloccavano» senza nuotare. Secondo la ricercatrice Cosima Porteus:
Il senso dell’olfatto delle spigole si era ridotto di quasi la metà nell’acqua più acida. Per prima cosa abbiamo confrontato il comportamento di un branzino giovane ai livelli tipici delle condizioni oceaniche odierne, e poi al previsto livello futuro: il branzino nelle acque acide nuotava di meno ed era meno pronto alla risposta quando incrociava l’odore di un predatore. Questi pesci erano anche più propensi a ‘bloccarsi’, denunciando ansietà. Volevamo inoltre esaminare se il pesce avesse qualche capacità di compensare questo ridotto senso dell’olfatto, ma abbiamo scoperto che invece di aumentare, l’espressione dei geni per i recettori dell’olfatto nel naso, ha fatto il contrario, esacerbando il problema.
La capacità olfattiva delle spigole è stata valutata attraverso le registrazioni dell’attività del sistema nervoso dei pesci, riscontrando come questa si riduceva all’aumentare dell’acidità. Per l’esperimento sono state utilizzate solo le spigole, ma il senso dell’olfatto si comporta in modo simile nella maggior parte dei pesci. Studi precedenti avevano già dimostrato come mari più acidi rendano i pesci più stupidi, compromettendo le funzionalità stesse del cervello.
D’altronde siamo tutti consapevoli dell’effetto soporifero e dei danni causati da avvelenamento da CO2 nelle vasche acquariofile… I ricercatori confermano che questo accade perchè l’acidità del mare modifica le molecole responsabili degli odori, legandosi ai recettori presenti nel “naso” dei pesci e riducendone la loro capacità di processare le informazioni. Purtroppo, non è ancora noto quanto rapidamente i pesci saranno in grado di superare in futuro questi problemi, mentre la CO2 aumenterà.
Non è la prima volta che il branzino viene testato per rispondere ad alcune delle sfide poste dai cambiamenti climatici e dai contaminanti ambientali. Una ricerca del 2014 sugli effetti dell’aumento del global warming nel comportamento e nella neurochimica di questa specie era già stata condotta dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con l’Istituto di Scienze e Tecnologia della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISTC-CNR), l’Università “La Sapienza” di Roma – Dipartimento di Biologia e Biotecnologia “Darwin” e l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, evidenziando che l’innalzamento delle temperature correlato ai cambiamenti climatici in atto determina modifiche comportamentali di tale specie.
Ancora, uno studio del 2015, coordinato da ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), condotto sempre su branzini nutriti con frammenti di PVC per 90 giorni, ha evidenziato gravi impatti negativi sulla specie, con danni di natura fisica, come lesioni al tratto intestinale.
Insomma, l’acidificazione degli oceani – il fenomeno che va di pari passo con l’aumento delle temperature – fa perdere la testa al nostro Nemo. E non solo a lui. E’ il succo di un ulteriore lavoro pubblicato sull’ultimo numero della rivista scientifica Nature Climate Change. Anche in questo caso la ricerca, coordinata dal professor Philip Munday (James Cook University – Australia) e frutto del lavoro di un gruppo di cui fa parte anche l’italiano Paolo Domenici, dimostra che una concentrazione di anidride carbonica nell’acqua pari a quella che verosimilmente si raggiungerà a fine secolo si ripercuote sui neurotrasmettitori dei piccoli di Amphiprion ocellaris, i nostri amati pagliaccetti: diventando l’acqua più acida, i pagliaccetti trovano difficoltà a riconoscere attraverso l’olfatto la presenza dei predatori e della barriera corallina, nella quale si rifugiano di notte, come accade nei branzini. Di giorno la barriera corallina viene localizzata attraverso l’udito, e i pesci dovrebbero evitarla: ma un’accresciuta concentrazione di anidride carbonica ostacola anche questo processo, come pure l’istinto che porta i branchi di pesci a girare in massa a destra o a sinistra per sfuggire ai predatori. Questo lavoro dimostra inoltre che il fenomeno non ha lo stesso impatto su tutte le specie, e si fa verosimilmente sentire soprattutto in quelle che consumano una più alta quantità di ossigeno, fra le quali ce ne sono alcune molto importanti per la pesca.
E’ singolare notare come, per migliorare almeno in parte le cose, si dice sarebbero necessari lockdown mirati, più o meno ogni due anni nell’intero arco di un decennio, per iniziare ad avere dei risultati accettabili nella salvaguardia dei nostri ecosistemi.