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La pesca non sostenibile delle acciughe (Engraulis encrasicolus)

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Tutti i mari sono soggetti da attività antropica sia direttamente che indirettamente, e tra le più invasive e dannose si colloca la pesca industriale, scarsamente controllata e regolamentata, che rischia di cambiare per sempre il volto dei nostri mari.

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Troppo spesso l’industria della pesca riesce a sfruttare intere zone prima che sia possibile valutare l’impatto di queste attività sugli ecosistemi, si stima che dagli anni 50, periodo in cui la pesca industriale è cominciata, sia riuscita a ridurre più di due terzi la biomassa dei pesci predatori, e tale processo ha portato molti di essi ad essere minacciati di estinzione. La “lista rossa” delle specie a rischio curata dall’International Union for Conservation of Nature stima che siano minacciati di estinzione il 12 per cento delle cernie, l’11 per cento dei tonni e il 24 per cento degli squali e delle razze (David Shiffman 2014). E questa diminuzione delle popolazioni non ha un impatto solo sul consumo sostenibile del pesce che piace ai consumatori.

I predatori mantengono in equilibrio le popolazioni delle prede, e la loro perdita può causare fenomeni trofici, cioè nutritivi, a cascata in diverse reti alimentari che influenzano l’intero ecosistema oceanico.

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Il trasferimento di energia e materia lungo la catena trofica marina (Illustrazione di Franco Gambale)

La pesca moderna si è evoluta al passo delle nuove tecnologie, da i nuovi sonar che scovano anche il più piccolo dei pesci negli abissi degli oceani ai grandi pescherecci con reti che possono raggiungere anche 600 metri di lunghezza, in grado di pescare anche 300 tonnellate di pesce al giorno, passando all’attrezzatura per la lavorazione e il congelamento a bordo del pescato e capaci di navigare anche per grandi distanze con enormi carichi di pesce.

La gestione inefficace delle risorse ittiche e il sovra sfruttamento di esse ha già portato al collasso alcune zone di pesca, con conseguenze impressionanti. Nel 1992, dopo decenni di eccessi, è stata chiusa la pesca al merluzzo in Canada e 40 mila posti di lavoro sono andati in fumo. La stessa piega la stanno prendendo e sono assai vicini al collasso gli stock di merluzzo nel mare del Nord e nel mar Baltico (greenpeace 2015).

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illustrazione tratta dal libro del CNR “micro&Macro Mare: dalle alghe alle balene”

L’Italia è il secondo Paese dell’Ue  con il maggior numero di pescherecci (17 per cento del totale), secondo solo alla Grecia (19 per cento). Pur essendo costituita per la maggior parte da pescherecci di piccole dimensioni (al di sotto dei 12 metri), la flotta peschereccia italiana è anche la più grande in termini di potenza dei motori (18 per cento), seguita da Spagna (14 per cento) e Francia (13 per cento) (STECF 2014). A partire dagli anni Novanta, i fondi europei stanziati per il settore pesca (per l’Italia, circa 19 milioni di euro complessivi nel periodo tra il 1994 e il 2006), non sono serviti a risolvere il problema della pesca eccessiva e a diminuire in modo sostanziale la pressione di pesca esercitata sugli stock.

Per anni i Paesi dell’UE hanno investito milioni di fondi pubblici per finanziare la costruzione di nuovi pescherecci, anziché investire in maniera adeguata nella ricerca scientifica e nella selettività degli attrezzi per garantire una redditività nel lungo periodo (J. Thurston et al. 2013). Questi pescherecci sempre più potenti invece di garantire una maggiore redditività generale dalle risorse ittiche hanno svuotato il mare e messo in ginocchio la piccola pesca costiera, che stenta a reggere la concorrenza con navi potenti e super efficienti.

Non solo i grandi predatori del mare sono a rischio. Anche per le specie più piccole, come ad esempio il pesce azzurro e in particolare sardine e acciughe, la situazione è grave.

la situazione delle acciughe nel mediterraneo a pagina due

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